domenica 25 aprile 2010

Gli ultimi giorni di Mussolini e dei suoi ministri

(memorandum segreto)

Mittente: 441 (nome sconosciuto)
Destinatario: 110 (Allen Dulles, Berna)
Data: 30 maggio 1945



Riepilogo delle difficoltà incontrate durante la raccolta di informazioni attendibili (tramite testimoni oculari) e atteggiamento generale del Clnai

Benito Mussolini e Claretta Petacci, la sua amante, sono stati catturati venerdì 27 aprile 1945 a Dongo, in provincia di Como, e fucilati sabato 28 aprile in località Giulino di Mezzegra. I loro cadaveri, assieme a quelli di numerosi ministri e di altri importanti gerarchi, sono stati trasportati a Milano nel corso della giornata, per essere poi appesi per i piedi in una piazza il giorno seguente.
Per ordine delle autorità americane (che erano appena giunte in città), i corpi sono stati calati a terra domenica 29 aprile e trasportati in un obitorio.

Quella domenica io mi trovavo a Como e, il giorno dopo, a Milano. Malgrado fossero trascorse appena ventiquattro ore dall’esecuzione, non sono riuscito a ottenere (a Como) informazioni plausibili sia sulle circostanze che hanno portato alla loro cattura, sia sulla dinamica dell’esecuzione. Non sono stato nemmeno in grado di trovare i testimoni oculari degli eventi, sia a Como che a Milano. Senza dubbio, ciò è dovuto al fatto che Mussolini è stato catturato in
una cittadina sulla riva occidentale del lago di Como, per essere poi passato per le armi in una strada deserta nei pressi di Giulino di Mezzegra, sulle colline che si affacciano sul lago. Persino la popolazione locale è stata tenuta lontana e, con l’eccezione dei protagonisti del dramma, nessun altro è stato testimone degli avvenimenti. Il rapporto che segue evidenzia che gli attori del dramma erano pochi. La fucilazione di Mussolini, per esempio, è stata eseguita da appena
cinque persone. Una di queste, qualche giorno dopo, è rimasta vittima di un “fatale” incidente. Un’altra è stata colta da forte esaurimento nervoso. Alla fine è scomparsa e nessuno conosce il suo destino.

Nel corso delle mie indagini, ho parlato con il generale Raffaele Cadorna, comandante in capo del “Corpo volontari della libertà” (Cvl), il braccio militare del Clnai. Ho poi sostenuto una serie di conversazioni con Gustavo Ribet (comandante del Cvl, ovvero dei partigiani, in Lombardia) e con molti altre personalità (civili e militari), elementi in grado di fornirmi informazioni attendibili. Alcuni di questi colloqui hanno avuto luogo nella mattinata di domenica 29 aprile, altri nei successivi trenta giorni. Il 9 maggio, ad esempio, il generale Cadorna mi ha confidato che non tutti i dettagli della vicenda, oggetto delle mie indagini, erano noti al Clnai, aggiungendo che la politica generale osservata da questa organizzazione consisteva nel non entrare troppo nella questione. Ha comunque sostenuto che il colonnello Valerio, al momento di lasciare Milano per Dongo, aveva l’ordine preciso di procedere con l’esecuzione di Mussolini. Gli ho quindi chiesto se tale ordine era il risultato di una decisione del Clnai. Cadorna ha replicato che “l’ordine è stato emanato in forma ufficiale da un membro del Comitato, per conto di tutto il Clnai.”
Nell’affrontare il tema, il comandante Ribet mi ha informato invece che il Comitato si è assunto la responsabilità dell’esecuzione ventiquattro ore dopo. E’ noto, infatti, che il comunicato ufficiale in questione è apparso sui giornali milanesi soltanto il 30 aprile (lunedì), ovvero due giorni dopo la fucilazione.

La seguente descrizione degli ultimi giorni di Mussolini, della sua amante e di vari dignitari del regime fascista, è basata in parte su dichiarazioni da me ottenute tramite testimoni oculari, in parte su rapporti a me indirizzati (qualche giorno dopo i suddetti eventi) dall’ufficiale partigiano che ha esploso gli ultimi due colpi di pistola contro il Duce. Tutti i luoghi descritti nel memorandum sono stati da me visitati qualche giorno dopo gli avvenimenti, compresa la casa in cui Mussolini e la Petacci hanno trascorso la loro ultima notte. […].



La sosta di Mussolini a Menaggio (26 aprile 1945)

Il capo dei fascisti a Menaggio era Emilio Castelli, membro del Consiglio federale fascista per la provincia di Como, che era anche un consigliere di Porta, il federale di Como. Di solito, un consigliere svolgeva vari compiti. Castelli, ad esempio, era anche al comando della Settima compagnia della brigata “Cesare Rodini” (Brigate nere). La compagnia aveva sede presso la scuola locale, dove Castelli aveva un ufficio.

Fu in questo edificio di Menaggio che Mussolini si installò giovedì 26 aprile, di buon mattino. Il suo arrivo non fu annunciato, forse per ragioni di sicurezza.
Castelli fu raggiunto a casa da uno dei suoi uomini. Gli fu detto che Porta voleva incontrarlo in caserma. Davanti all’edificio sostavano dieci automobili e due autocarri tedeschi, con circa venticinque soldati. Porta gli comunicò l’arrivo di Mussolini, aggiungendo che occorreva mettergli subito a disposizione una stanza perché potesse riposare (aveva passato in bianco le due notti precedenti).
Pochi minuti dopo, il Duce, che appariva calmo ma affaticato, convocò Castelli, che rimase colpito dall’attenzione con la quale Mussolini ascoltava i suggerimenti di Porta, Zerbino e di altre persone della comitiva. Ciò strideva con la figura del leader autorevole che egli si era sempre immaginato.

Il Duce interrogò Castelli sulla situazione in quella provincia, ovvero sul tratto di strada che va da Argegno a Dongo (riva occidentale del lago di Como). In particolare, era interessato a sapere se vi era attività partigiana in quelle zone.
Castelli rispose che la situazione era “normale” e che, con l’eccezione di alcuni incidenti di scarsa importanza, i partigiani erano sotto controllo. Castelli si riferiva ad una operazione di “pulizia” contro i partigiani nei pressi di Dongo, dove nei giorni precedenti un milite delle Brigate nere era rimasto ucciso e un altro ferito. Castelli non dava molta importanza all’incidente ma un capo partigiano mi riferì successivamente che, in quella occasione, Castelli aveva ordinato la fucilazione di sei partigiani (cinque uomini e una donna). E’ probabile che le assicurazioni di Castelli abbiano convinto Mussolini a dirigersi verso Dongo, il giorno successivo, con una scorta relativamente piccola. E fu proprio a Dongo che egli cadde nelle mani dei partigiani.

Dopo aver sorseggiato del caffè offertogli da Castelli, Mussolini si ritirò a riposare in una piccola stanza al secondo piano della caserma. Ma il sonno fu breve perché, poco dopo le 9.00, scese al pianterreno per riprendere le interminabili discussioni con Porta e gli altri. Questi suggerì che la colonna motorizzata del Duce fosse spostata a Grandola, un villaggio a pochi chilometri da Menaggio, sulla strada che conduce al confine svizzero (nei pressi di Porlezza). Il convoglio, infatti, cominciava ad attirare l’attenzione della popolazione, anche perché in mattinata si erano aggregati altri autocarri provenienti da Como. La proposta fu accettata e l’autocolonna partì alle 9.30.
Castelli apprese da Porta che l’idea era di trovare, per Mussolini e il suo seguito, un luogo lontano da sguardi indiscreti dove poter trascorrere la giornata.
Sembrava finalmente prender corpo un piano operativo ma la sua messa in atto dipendeva dall’arrivo di qualcosa o di qualcuno. Forse, si attendevano Pavolini e le sue truppe da Bergamo e da Milano perché proteggessero il Duce durante il viaggio. Oppure, si tentò per l’ultima volta di ottenere l’autorizzazione ad entrare in territorio svizzero. Secondo alcune persone che si trovavano sul convoglio e che sopravvissero agli eventi del giorno successivo, gli ufficiali tedeschi dell’autocolonna furono infatti inviati alla frontiera con la richiesta di poter attraversarla. Ma il rifiuto delle guardie fu netto. […] Verso le 20.00, senza avvertire Castelli, il convoglio tornò a Menaggio, sistemandosi nella stessa caserma del mattino. A mezzanotte, da Como, arrivò anche Pavolini con due blindati. […] Mussolini, Pavolini e gli altri ministri si riunirono nuovamente per quasi tre ore. Alle 3 del mattino, il Duce se ne andò a letto ma dormì appena un’ora. Alle 4 era nuovamente in piedi. Porta, quindi, ordinò a Castelli di preparare la partenza. La colonna motorizzata si mosse verso nord alle 5 di venerdì 27 aprile. Porta confidò a Castelli che era diretta in Valtellina. La confusione era grande. Mussolini manteneva la calma ma era chiaro che il nervosismo della comitiva e il clima di panico lo mettevano a disagio. Il Duce strinse la mano al prefetto di Como (Celio) ed entrò nell’automobile con cui era arrivato. Indossava l’uniforme grigioverde della Milizia e il berretto d’ordinanza. Prima di partire, si mise un pastrano. Non portava segni di rango, con l’eccezione del nastrino rosso da squadrista, il distintivo dei fascisti che appartenevano al movimento fin dalle origini. […].



Gli eventi che precedettero la cattura di Mussolini (27 aprile 1945)

Nelle prime ore del 27 aprile, una piccola unità di partigiani della Cinquantaduesima brigata “Luigi Clerici” pattugliava la strada che va da Menaggio a Gravedona, sulla riva occidentale del lago di Como. Nei pressi di Pianello Lario, un piccolo insediamento a sud di Musso, la pattuglia udì all’improvviso il rombo di una motocicletta diretta a Como. Armi in pugno, i partigiani si schierarono sullo stradale e intimarono al motociclista di fermarsi.
Era un poliziotto fascista, appartenente alla Ps di Como, al quale furono sequestrate tre rivoltelle. Interrogato, ammise di essere di ritorno da Musso, dove i partigiani avevano appena bloccato una grossa autocolonna che trasportava un gruppo di importanti capi fascisti. Aggiunse che “un grand’uomo” si trovava con loro, lasciando capire che si trattava di Mussolini.
Alcuni membri della pattuglia, quindi, si precipitarono a Musso e trovarono la colonna motorizzata menzionata dal motociclista. Era composta da trentotto autoveicoli. Apriva il convoglio un blindato italiano. Vi erano anche delle automobili con a bordo numerosi passeggeri italiani. Il convoglio, al comando di un ufficiale delle Ss e composto da soldati della Luftwaffe e delle Ss, aveva raggiunto Musso alle ore 6.45 di venerdì 27 aprile. […] Vedendolo arrivare, i partigiani aprirono il fuoco e i tedeschi risposero. Erano probabilmente convinti che i partigiani fossero in forze. Di conseguenza, avviarono una trattativa per poter procedere senza noie. Le negoziazioni furono due. La prima ebbe luogo tra i partigiani ed i tedeschi; la seconda, tra don Mainetti (un sacerdote del posto) e gli italiani presenti nell’autocolonna. Fu uno dei partigiani di Pianello Lario ad informare il prete della storia raccontata dal motociclista. […] Nel frattempo, accadde un incidente curioso. Uno dei partigiani giunti a Musso da Pianello Lario volle dare un’occhiata agli occupanti del convoglio. Salì quindi al secondo piano di una casa che dava sulla strada, dove sostavano gli autocarri tedeschi. Dal balcone, si vedeva chiaramente un camion tedesco munito di rimorchio. In un angolo del veicolo, scorse un uomo che indossava un pastrano e un elmetto dell’esercito germanico. Era seduto e fumava. Un soldato tedesco era in piedi fuori dal camion, proprio dinanzi a questa persona, come se volesse nasconderla alla vista degli altri. Ad un tratto, l’uomo seduto alzò la testa e accese una sigaretta al tedesco. Il partigiano riconobbe Mussolini. Rimase di sasso e la sua reazione istintiva fu quella di impugnare la rivoltella. Ma il proprietario della casa notò la mossa e gli trattenne il braccio. Erano presenti alcuni bambini e, inoltre, i tedeschi sembravano essersi accorti della sua presenza. In piena eccitazione, il partigiano scese in strada e riferì al suo capo ciò che aveva visto. Questi, a sua volta, ordinò immediatamente ad un messaggero di recarsi ad avvertire i partigiani di Dongo. Tuttavia, per ragioni ignote, la staffetta partigiana non raggiunse mai la cittadina. […]


La cattura di Mussolini e di Claretta Petacci a Dongo, provincia di Como (27
aprile 1945)

La colonna motorizzata tedesca raggiunse Dongo verso le 15.00. Su ordini del comandante Pedro, il partigiano Bill iniziò l’ispezione di tutti gli autoveicoli assieme ai suoi uomini. I tedeschi erano circa duecento, tutti armati. […] I partigiani individuarono anche un uomo, una donna e due bambini. Erano in possesso di documenti spagnoli, secondo i quali si trattava di funzionari consolari diretti in Svizzera. Un capo partigiano disse loro che solo i tedeschi erano autorizzati a procedere, secondo l’accordo stabilito in mattinata. Gli “spagnoli” dovevano quindi abbandonare il convoglio e rimanere a Dongo. Ma emergeva già il sospetto che si trattasse di italiani. Uno dei partigiani si rivolse ai due in spagnolo e s’accorse che non parlavano questa lingua. In breve, la donna fu riconosciuta come Claretta Petacci, l’amante di Mussolini, che finì per confessare la sua identità (quella del suo compagno, invece, rimase ignota fino al giorno seguente). […] Fu perquisito anche il camion in cui Mussolini sarebbe stato in seguito smascherato. Tuttavia, durante questa prima ricerca, il Duce non fu identificato. Il veicolo, infatti, era stipato di soldati tedeschi, di coperte di lana e di altri oggetti. Secondo una versione circolata più tardi, un ufficiale tedesco aveva preso da parte un partigiano prima di lasciare Musso e, di sua iniziativa, gli aveva comunicato che Mussolini si nascondeva nella colonna motorizzata. Ma, a Dongo, il comandante partigiano incaricato dell’ispezione non era al corrente di questa informazione, vera o falsa che fosse. In ogni modo, i partigiani, perquisirono nuovamente il camion. Bill, infatti, aveva appena finito di controllare il secondo autocarro tedesco quando un partigiano si precipitò da lui per dirgli che aveva notato un tedesco molto sospetto nell’ultimo camion del convoglio. Bill lo raggiunse subito e notò all’interno un uomo seduto, appoggiato ad una delle balaustre laterali del veicolo. Indossava un elmetto e un pastrano dell’esercito tedesco. Secondo altri rapporti, portava anche degli occhiali scuri (ma questo dettaglio non è mai stato confermato). Da fuori, Bill allungò il braccio e gli toccò la schiena, chiamandolo “camerata”.
L’uomo rimase immobile. Il partigiano, allora, si rivolse a lui con un “eccellenza”. Ma l’individuo continuava a non reagire. A quel punto, Bill urlò “cavaliere Benito Mussolini!” e solo allora l’uomo fu scosso da un fremito.
Assieme ad un autista di Dongo, che si era unito ai partigiani, Bill salì all’interno del camion. Nel frattempo, i soldati tedeschi (che si trovavano a bordo quando si era verificata la prima ispezione sommaria) erano scesi sulla strada. Uno di loro disse al partigiano che si trattava di un camerata ubriaco e che non era il caso di disturbarlo. Bill rispose che avrebbe controllato con i suoi occhi e si avvicinò all’uomo seduto. Era circondato da coperte e reggeva un mitra tra le ginocchia. Bill non ne scorgeva il volto. Gli tolse quindi l’elmetto, trovandosi così dinanzi alla celebre testa calva del Duce. Solo a quel punto, realizzando di essere stato riconosciuto, Mussolini balzò in piedi esclamando “Non faccio resistenza!”. Secondo altre voci, avrebbe anche detto “Non c’è nessuno a difendermi?”. Il partigiano, allora, gli strappò il mitra e lo consegnò all’autista. Poi, tenendo Mussolini per il braccio destro (mentre l’autista lo reggeva a sinistra), scese dal camion. Bill era convinto che i soldati tedeschi avrebbero aperto il fuoco e pensò che era giunta la sua ora. Non era infatti pensabile che gli consegnassero il Duce così facilmente. Più tardi, infatti, Mussolini gli confessò che i soldati erano stati istruiti a sparare se fosse stato identificato. Tuttavia, non mossero un dito in sua difesa. Erano le 16.00 del 27 aprile. Mussolini scorgeva ovunque sguardi duri e ostili. Era ovviamente sconvolto ma cercò di assumere un atteggiamento composto. Mentre veniva portato al palazzo municipale, Bill gli disse che avrebbe garantito la sua sicurezza personale in quanto fosse rimasto sotto la sua tutela. Mussolini tirò un sospiro di sollievo. Era preceduto da un partigiano, Ortelli. Bill gli stava dietro e impugnava una rivoltella. Notò anche che Mussolini aveva una pistola infilata nel cinturone e gliela tolse. Il Duce fu portato in uno stanzone al piano terra del comune, a sinistra dell’entrata principale. Subito dopo, si tolse il pastrano tedesco esclamando: “Basta coi tedeschi! Mi hanno tradito per la seconda volta!”. Non è chiaro se si riferisse alla scorta germanica che non si era opposta alla sua cattura o a qualcos’altro. Vari partigiani furono messi a guardia del prigioniero. Ciò provocò la sua reazione: i carcerieri non dovevano preoccuparsi
perché non aveva alcuna intenzione di fuggire. Bill rimase per un po’ in compagnia di Mussolini e gli rivolse alcune domande. “Dov’è Vittorio?” chiese. “Non lo so” rispose il Duce. “E Graziani?”. “Non ne sono sicuro ma credo si trovi a Como. Mi ha tradito all’ultimo momento, rifiutandosi di seguirmi.” E il partigiano: “Perché Lei si trovava in un camion mentre i suoi ministri erano a bordo di un blindato?”. Mussolini mormorò qualcosa sul fatto di essere stato
tradito.
[…] Anche Claretta Petacci fu portata al palazzo comunale, in una stanza adiacente a quella in cui si trovava il Duce. Ma la porta di comunicazione rimase chiusa a chiave. […] Carlo, comandante di una piccola unità della Cinquantaduesima brigata partigiana, aveva il suo quartier generale a Gera Lario, un villaggio a nord del lago. Dopo aver appreso che il convoglio italo–tedesco era stato fermato dai partigiani a Dongo, distante alcuni chilometri, nel primo pomeriggio decise di raggiungere la cittadina per verificare la situazione.
Per assicurarsi che Mussolini fosse realmente tra i prigionieri, si recò al palazzo municipale per vederlo con i suoi occhi. Di ritorno a Gera Lario, corse agli uffici della “Società elettrica comacina” dove funzionava una linea telefonica collegata con la centrale di Milano. Alle 17.30 chiamò Milano e riuscì a parlare con un ingegnere della ditta, chiedendogli di informare il Clnai che il Duce era stato catturato. Un’ora dopo arrivò la risposta, sempre via telefono. Le istruzioni erano di custodire Mussolini, di assicurarsi che non scappasse e che non gli fosse fatto del male. Carlo comunicò gli ordini al comandante Pedro e a Bill.


La detenzione di Mussolini a Germasino (27 - 28 aprile 1945)

[…] Prima ancora che arrivassero le disposizioni da Milano, Pedro aveva intuito che Dongo, situata su una strada principale e relativamente vicina a Como e a Menaggio, poteva offrire ai fascisti l’occasione di liberare Mussolini. […] Tra le 18.30 e le 19.00, Pedro condusse quindi Mussolini e Porta a Germasino, accompagnato da Boffelli, brigadiere della Guardia di Finanza e fervente patriota. La piccola automobile nella quale erano saliti era seguita da una macchina più grande, con a bordo otto partigiani. Altri sette arrivarono poco dopo, a piedi. Il Duce fu portato nell’ufficio del comandante Antonio Spadea (Guardia di Finanza), al secondo piano di una caserma. Mentre salivano le scale, Pedro chiese a Mussolini se aveva qualche richiesta. Appena entrato nella stanza, questi prese da parte Pedro e a voce bassa chiese al partigiano di fargli un favore, di dire cioè alla donna che viaggiava con il console spagnolo che stava bene e che tutto era in ordine. Pedro domandò chi fosse la signora e il Duce rispose che si trattava di una buona amica. “Ma chi è?” insistette Pedro.
“La Petacci” rispose Mussolini, abbassando ancor più la voce. Dopo aver lasciato i quindici partigiani a montare la guardia (tra costoro, molte reclute dell’ultima ora), Pedro partì per Dongo. […] Nel palazzo municipale parlò da solo con Claretta Petacci, comunicandole il messaggio del Duce. All’inizio, la donna finse di non capire e si disse sorpresa del fatto. Con fare brusco, Pedro replicò che se Mussolini si fidava di lui, anche lei doveva farlo. La conversazione andò avanti per più di un’ora, con tono franco e aperto. La donna scoppiava spesso a piangere e la cosa deve aver impressionato il giovane. Prima di andarsene, le chiese se aveva qualche richiesta. La Petacci rispose di non conoscere il destino che i partigiani le avevano riservato, ma di essere convinta di poter presto tornare in libertà. Aggiunse che il suo desiderio era di rimanere a fianco del Duce, anche se ciò poteva significare la morte. Chiese quindi a Pedro di poter ricongiungersi a Mussolini, ovunque egli fosse. Il partigiano rispose di non sapere se la cosa fosse al momento possibile ma promise che avrebbe fatto di tutto per accontentarla. Lasciò la Petacci prima delle 21.00 e, tra l’1 e l’1.30 del mattino del 28 aprile, tornò da solo a Germasino. Nel frattempo, a Dongo, si era accordato con il capitano Neri, il capo di stato maggiore della divisione “Garibaldi”, perché la donna fosse evacuata dalla cittadina qualche ora dopo, a bordo di un’automobile.

Dopo la partenza di Pedro da Germasino (avvenuta all’incirca alle 19.30), il comandante Spadea aveva preparato la cena per Mussolini (risotto, capretto al forno, frittata, verdure, vino e pane). Il Duce mangiò poco e poi chiese del thé, che bevve con gusto evidente. Al suo arrivo era depresso ma, dopo il pasto, sembrò rianimarsi. Spadea e gli altri partigiani cercarono quindi di farlo parlare su vari temi di politica interna ed estera. Mussolini si rifiutò di affrontare la situazione interna italiana ma parlò volentieri di politica internazionale. Disse che i russi erano una grande nazione e che Hitler aveva commesso un errore fatale nel ritenere che i vari popoli dell’Urss avrebbero approfittato della guerra per ribellarsi al governo di Mosca. In realtà, era accaduto il contrario. Tutti i popoli della Russia avevano combattuto con coraggio contro i tedeschi, un fattore che nessuno si sarebbe mai immaginato. Contro ogni aspettativa, Stalin aveva saputo accontentare il suo popolo. Era evidente che la sua politica vittoriosa era in sintonia con i desideri dei russi. Il Duce aggiunse di non dubitare che Stalin fosse un grand’uomo. Interrogato sull’Inghilterra, Mussolini affermò che avrebbe mantenuto lo status di grande nazione grazie al suo immenso impero, in mancanza del quale sarebbe già crollata da molto tempo.

Qualcuno chiese al Duce la sua opinione sugli Stati Uniti d’America e sul ruolo di questa nazione nella guerra in corso. Mussolini disse subito che era stata la Russia a battere le potenze dell’Asse. Quindici milioni di morti erano la prova tangibile del contributo russo alla vittoria. Tuttavia, se era vero che il punto di svolta della guerra era stata Stalingrado, bisognava riconoscere che l’esercito sovietico aveva potuto mettere in campo una simile offensiva grazie al materiale bellico ricevuto in gran quantità dall’America. In quella fase, l’Urss non sarebbe stata in grado di continuare la lotta senza l’aiuto americano. In tal modo, poco alla volta, la Russia era riuscita a sviluppare un poderoso potenziale bellico per conto proprio. Mussolini, quindi, esaltò l’organizzazione dell’industria americana e concluse il suo ragionamento affermando che le nazioni alleate non avrebbero mai vinto la guerra senza la partecipazione degli Stati Uniti.

Dopo la sua morte, i giornali italiani divulgarono alcuni brani di questo dialogo, aggiungendo che il Duce aveva messo a confronto le figure di Stalin e di Roosevelt. Nelle sue parole, il presidente americano sarebbe stato “una personalità di secondo piano” in rapporto al capo di Stato russo. Tuttavia, interrogato su questo punto, Spadea negò con decisione che tale paragone fosse mai stato avanzato.

Anche Porta era presente al colloquio, l’unico dignitario neofascista con il quale il Duce parlò durante la sua sosta a Germasino. […].


Il trasferimento di Mussolini e della Petacci a Bonzanigo di Mezzegra (28 aprile 1945, mattino presto)

Poco dopo l’una del mattino del 28 aprile, Pedro fece ritorno a Germasino. Oltre al guidatore, nell’automobile si trovava anche il partigiano Renzo, una persona fidata che aveva trascorso l’inverno nascosto sul monte Berlinghera. Al suo arrivo in caserma, Pedro apprese che Mussolini era stato sistemato in una piccola cella con due finestre, al terzo piano. L’arredamento era semplice e l’ambiente pulito e ben ventilato. Il Duce era a letto ma non dormiva. Pedro disse che gli dispiaceva disturbarlo ma che era necessario tradurlo in un’altra località. Mussolini rispose che se l’aspettava. Aveva già capito che non sarebbe rimasto a lungo a Germasino. Si vestì e scese al piano inferiore. Il partigiano gli comunicò che doveva bendargli la testa per impedire che fosse riconosciuto durante il tragitto. Il Duce non fece obiezioni. Pedro quindi gli fasciò il capo, lasciando scoperti gli occhi e la bocca. L’obiettivo del travestimento era di evitare guai giacché Pedro temeva che, sulla strada per Como, qualche pattuglia potesse scambiarlo per un fascista che cercava di porre in salvo il capo del fascismo. La confusione, infatti, regnava sovrana nei dintorni e vi era scarso coordinamento tra i gruppi partigiani che controllavano quelle zone.
Pedro e Mussolini percorsero in macchina la strada di campagna che scendeva da Germasino. Nei pressi di Dongo, secondo i piani, incrociarono l’automobile con a bordo Claretta Petacci, il capitano Neri e Pietro. A bordo vi erano anche i partigiani Sandrino (inteso Menefrego) e, probabilmente, Nato (inteso Lino).

Mussolini e la Petacci si salutarono. Il Duce disse: “Signora, per quale motivo volete condividere il mio destino?”. La donna rispose che era questo il suo unico desiderio. Aveva pianto durante tutto il tragitto ma ora sembrava tranquilla.

L’automobile con a bordo la Petacci apriva la strada, seguita da quella di Mussolini. Durante la breve sosta, nella macchina di Pedro erano saliti la partigiana Gianna e Menefrego. Pioveva e Mussolini commentò che l’acqua faceva bene alle coltivazioni.

In località Moltrasio, a pochi chilometri da Como, si udirono delle raffiche di mitra. Pedro e Neri pensarono che poteva trattarsi di un tentativo fascista di liberare il Duce. Decisero quindi che non era prudente procedere e si consultarono per decidere dove portare i due prigionieri. Neri propose una casa in località Bonzanigo di Mezzegra, un insediamento isolato sulle colline di Azzano. Vi aveva trascorso varie notti quando si nascondeva dai fascisti.
Conosceva i proprietari, brava gente di campagna. Neri garantiva sulla loro lealtà e discrezione. Gli altri furono d’accordo e le due macchine tornarono indietro per raggiungere Azzano, distante circa 20 chilometri (Mussolini e la Petacci avevano già attraversato Azzano quando erano diretti a Musso e a Dongo). Le automobili furono più volte fermate da pattuglie partigiane. Per poter proseguire, Pedro e Neri raccontarono di trasportare alcuni feriti.

Nei pressi di Azzano, all’incrocio della strada principale con quella che conduce a Bonzanigo, le macchine si fermarono e tutti i passeggeri uscirono. Pedro, Neri, Pietro, Gianna, Menefrego e Lino scortarono Mussolini e la Petacci verso la casa prescelta. Il gruppo prese una scorciatoia per evitare la strada di campagna. L’alloggio si trovava in cima a una collina. Pioveva. La comitiva procedeva lentamente perché la Petacci era molto stanca. Arrivarono a destinazione tra le 2 e le 3 del mattino del 28 aprile.


L’ultima notte di Mussolini e della Petacci a Bonzanigo (28 aprile 1945)

[…] Scossi ed esausti per gli avvenimenti della giornata, Il Duce e la Petacci entrarono nella modesta abitazione, nei pressi di via del Riale. Apparteneva a Giacomo De Maria, un contadino, e a sua moglie. Il proprietario, un fervente patriota che aveva aiutato la Resistenza in più di un’occasione, fu svegliato dai partigiani. Offrì volentieri la sua ospitalità “alla coppia di tedeschi feriti” (così gli furono presentati i due prigionieri). Mussolini era bendato ma poteva vedere e parlare. “Buona sera” disse ai contadini entrando. La signora De Maria chiese un po’ di tempo per sistemare la stanza al terzo piano, dove dormivano i loro due bambini (che furono svegliati e inviati in una baita di proprietà della famiglia). Pedro ordinò che il letto fosse rifatto con lenzuola pulite, aggiungendo che la coppia sarebbe rimasta per due o tre giorni. La donna obbedì, non immaginando chi fossero gli ospiti. In cucina, all’uomo bendato fu chiesto se desiderava del caffè. Questi, però, rifiutò bruscamente. Aveva un atteggiamento deciso, sebbene apparisse vecchio e stanco. Subito dopo, la coppia fu scortata nella stanza. Le pareti erano bianche. Sopra il letto matrimoniale campeggiavano tre povere immagini religiose. C’era anche un piccolo lavabo in ferro e, appesa al muro, la foto scolorita di una cugino della padrona di casa, morto durante la prima guerra mondiale. Due sedie di legno completavano l’arredamento. […] Il Duce non aveva bagaglio o effetti personali; la Petacci, invece, un paio di scarpe avvolte in un foulard, un colbacco in pelliccia e una coperta militare (che fu stesa sul letto perché diceva di aver freddo).

Mussolini parlava pochissimo. Chiese solo due guanciali, la Petacci un pettine e altre cose. Una volta nella stanza, il Duce si tolse le bende e si affacciò alla finestra per capire dove fosse. Fu allora che il contadino lo riconobbe. Ma tacque e non lo disse alla moglie. Il partigiano di guardia nella stanza accanto notò che Mussolini guardava fuori dalla finestra e ordinò al signor De Maria di trancarla. Questi fece presente che la stanza si trovava piuttosto in alto e che non c’era modo di scappare. Il partigiano si tranquillizzò e la stanza fu chiusa dall’esterno. Lino e Menefrego furono posti a guardia della casa mentre Pedro, Neri e gli altri se ne andarono.

La coppia dormì quasi fino a mezzogiorno del sabato. La Petacci chiese della polenta e un po’ di latte. Fu loro portato anche un piatto con pane e salame. La donna mangiò con appetito mentre il Duce prese solo un panino e due fette di salame. Non bevve il latte, così come la sera prima aveva rifiutato il caffè. Sorseggiò solo un po’ d’acqua. Temeva di essere avvelenato? I resti del pasto rimasero nella stanza per molti giorni dopo la morte dei due. Una saponetta usata fu ritrovata sul lavabo, così come il colbacco della Petacci e due tute blu da lavoro che Mussolini doveva aver indossato.

Il Duce appariva riposato e ringiovanito rispetto alla sera precedente. Si lavò ma non si fece la barba. Parlava poco e sembrava triste (se interpellato, rispondeva sempre “Bene, bene”). Il signor De Maria raccontò più tardi della misteriosa scomparsa di un coltello, che era appoggiato sul tavolo della cucina all’arrivo della coppia. Aggiunse di essere sicuro che Mussolini (che stava accanto al tavolo) se ne fosse impossessato, un dettaglio che solleva vari interrogativi sulle sue reali intenzioni in quel frangente. In ogni modo, dopo la partenza, il coltello fu ritrovato nella stanza al terzo piano.

A Bonzanigo, nel frattempo, l’eccitazione era alle stelle. Si era sparsa la voce che, durante la notte, il Duce fosse stato visto passare per le strade del villaggio. La signora De Maria non uscì per tutta la mattinata mentre suo marito fece dei lavori attorno alla casa per poi recarsi al villaggio. Ma non disse una parola sui suoi ospiti fino a quando questi non se ne furono andati. Ad un certo punto, qualcuno commentò che le truppe americane erano arrivate a Como. Aprendo la porta della sua stanza, Mussolini chiese se fosse vero. Gli risposero di sì. La notizia lo commosse visibilmente.

Verso le 16.00, arrivarono a Bonzanigo il colonnello Valerio e uno dei partigiani che avevano scortato i prigionieri. Il signor De Maria condusse Valerio fino alla porta della stanza. Questi bussò ed entrò. De Maria rimase fuori. Da dietro la porta, il proprietario udì distintamente il colonnello che invitava i due ad abbandonare la casa con urgenza. Valerio ripeteva che non c’era tempo da perdere. Nel giro di pochi minuti, il Duce e la Petacci uscirono dall’abitazione. Mentre la Petacci, pallida e piangente, si aggrappava al braccio del suo amante, questi camminava ostentando sicurezza.


Gli eventi che precedettero l’esecuzione di Mussolini e di Claretta Petacci (28 aprile 1945)

Venerdì 27 aprile, in serata, il colonnello Valerio aveva raggiunto la prefettura di Como. A Milano, il generale Cadorna gli aveva affidato una missione segreta.
Valerio si comportava con decisione. Era un uomo sulla quarantina, dai tratti marcati, alto e con i capelli scuri. Indossava una uniforme partigiana color rosso mattone e portava al petto tre distintivi a forma di stella. Era in compagnia di un certo Nicola, commissario di guerra.

Le credenziali di Valerio furono esaminate da un membro provinciale del Clnai. I documenti erano a posto. Subito dopo, iniziò una riunione nei locali della prefettura “per discutere una serie di questioni della massima importanza.” Vi presero parte numerosi comandanti partigiani come, ad esempio, il maggiore De Angelis, il responsabile provinciale di tutte le formazioni. Si doveva stabilire cosa fare di Mussolini, la cui cattura a Dongo era stata annunciata nel tardo pomeriggio.

Dopo un lungo dibattito, fu deciso di inviare una colonna motorizzata a Dongo per prelevare il Duce. Il convoglio doveva essere composto da blindati, automezzi militari (vuoti), automobili e da un’ambulanza della Croce Rossa. I blindati dovevano essere occupati dai partigiani comaschi. I camion, invece, erano destinati agli uomini di Dongo che avevano catturato Mussolini. Era infatti prevedibile che questi sarebbero stati riluttanti a consegnare il prigioniero ad un’altra unità partigiana. Si sperava così di acquietarli affidando loro il compito di scortarlo.

Fu inoltre deciso che il Duce sarebbe stato tradotto a Como e poi a Milano per essere consegnato al generale Cadorna, che a sua volta lo avrebbe affidato alle autorità alleate. Nel corso dell’operazione, il colonnello Valerio e Nicola dovevano rappresentare il comando generale del Clnai; Scionti (comunista, membro supplente) e De Angelis il comitato provinciale. Valerio sembrò approvare il piano. L’autocolonna sarebbe partita il giorno dopo (28 aprile), verso mezzogiorno.

Oscar Sforni, segretario del Clnai comasco, non era presente all’incontro. Raggiunse la prefettura alle 10.00 del giorno dopo. Scionti lo mise al corrente della decisione presa la sera prima, aggiungendo di essere stato scelto per recarsi a Dongo assieme a De Angelis.

Mezz’ora dopo, Sforni fu convocato dall’avvocato Spallino, un altro membro del Comitato provinciale. L’uomo era molto agitato e disse a Sforni che doveva andare a prelevare Mussolini a Dongo al posto di Scionti, assieme a Valerio e a De Angelis. Il colonnello aveva inaspettatamente anticipato la partenza alle 10.30 e Scionti non era più reperibile. Questo, almeno, sembrò essere il motivo.
Sforni ubbidì e raggiunse Valerio davanti alla prefettura. Il colonnello era arrivato da Milano con una dozzina di partigiani. I suoi uomini indossavano belle uniformi, erano armati di mitra e davano l’impressione di essere militi scelti. Valerio, che si comportava in modo terribilmente rude e nervoso, ordinò a Sforni e a De Angelis di reperire subito un camion per trasportare i suoi uomini a Dongo. Con tutta evidenza, aveva già abbandonato il piano di allestire una colonna motorizzata composta da automezzi militari, automobili e da un’ambulanza dove Mussolini doveva essere nascosto.

Non è chiaro perché Valerio modificò i suoi piani. L’unica cosa certa è che, pochi minuti prima, aveva ricevuto una chiamata da Milano. Dopo aver scambiato alcune parole al telefono, diventò molto teso e senza troppi complimenti ordinò a tutti di lasciare l’ufficio. Mentre parlava, brandiva nervosamente un mitra e urlava ordini. Tutto indica che fu la telefonata a modificare la sua missione originale. Il colonnello ricevette l’ordine di uccidere Mussolini e gli altri gerarchi fascisti catturati a Dongo? E’ solo un’ipotesi ma è plausibile. Altrimenti, diventa difficile spiegare la sua precedente disponibilità ad attuare i piani del Clnai comasco, che prevedevano la traduzione del Duce (vivo) a Milano. Le disposizioni ricevute via telefono potrebbero gettare luce anche sul suo improvviso cambio di attitudine nei confronti dei membri comaschi del Comitato, nonché sulla decisione di anticipare l’ora della partenza alle 10.30 e sul successivo trattamento da lui riservato nei confronti di Sforni e De Angelis, a Dongo.

Per puro caso, un automezzo militare si trovò a transitare davanti alla prefettura. Valerio puntò il mitra contro l’autista e gli intimò di abbandonare il veicolo. Mentre un partigiano si metteva alla guida, il colonnello ordinò a Sforni e a De Angelis di avviarsi a bordo di un’automobile. Li avrebbe seguiti a bordo del camion, assieme ai suoi uomini.

I due veicoli partirono per Dongo verso le 11.00 e arrivarono a Musso poco prima delle 13.00. Nei pressi della cittadina incapparono in un posto di blocco. Vedendoli arrivare, un partigiano sparò un colpo in aria. Con fare nervoso, un milite della Guardia di Finanza chiese di vedere le loro credenziali. Era sospettoso perché i due veicoli non si erano fermati al precedente posto di blocco di Tremezzo, sebbene i partigiani avessero loro segnalato di rallentare. L’informazione aveva raggiunto i partigiani sulle colline che sovrastavano la strada, facendo sì che la pattuglia di Musso si mettesse in allarme. Il colonnello rimase nel camion, lasciando che fossero Sforni e De Angelis a sbrigare la faccenda (De Angelis era al comando delle forze partigiane di tutta la provincia). Sforni chiese di vedere Pedro, il comandante della Cinquantaduesima brigata “Luigi Clerici” (divisione Garibaldi) che aveva catturato Mussolini e la sua comitiva. Gli fu risposto che Pedro era a Dongo.
Bottelli (era questo il nome del milite della Finanza) salì quindi nell’automobile di Sforni e De Angelis, che partì subito. Il camion di Valerio la seguì.

Nella piazza principale di Dongo i partigiani erano in forte agitazione. Guardavano con sospetto ai nuovi arrivati. Sforni udì qualcuno affermare che si trattava di fascisti della Decima Mas, il celebre corpo navale che si era distinto per crudeltà e violenze. Sforni scese dalla macchina per consultarsi con Valerio.
Con durezza, questi gli disse di voler solo stare a guardare. Si avvicinò anche Bottelli, ponendo una serie di domande. Ma il colonnello andò su tutte le furie. Richiamandolo alle regole della disciplina militare, lo ammonì che non era questo il modo di rivolgersi ad un superiore. Tutta la scena si svolse dinanzi ai partigiani e provocò un sentimento di assoluta ostilità nei confronti di Valerio.

Dopo aver sistemato Sforni e Bottelli, il colonnello chiese di vedere Pedro, che si trovava nel municipio (non lontano dalla piazza). Uno dei partigiani vi si recò per tornare indietro poco dopo, dicendo che Pedro sarebbe stato lieto di incontrare Valerio nel suo ufficio. Vi era ancora il timore di un contraccolpo fascista e Pedro aveva paura di cadere in una trappola, tanto più che il colonnello viaggiava con una forte scorta armata. Valerio fece sapere a Pedro di essere il suo superiore, intimandogli così di presentarsi in piazza. Nel frattempo, ordinò ai suoi uomini di scendere dal camion e di schierarsi. La mossa non piacque ai partigiani locali e la tensione aumentò. Al posto di Pedro, si presentò Neri (divisione Garibaldi), che conosceva personalmente Sforni, al quale chiese una conferma dell’autorità del colonnello. Sforni lo rassicurò, illustrandogli l’accordo raggiunto a Como la sera prima.

Valerio informò Neri di essere a capo di un’importante missione affidatagli dal generale Cadorna e, ancora una volta, insistette perché Pedro si presentasse dinanzi a lui. Pochi minuti dopo, Neri tornò in compagnia di Pedro e di Nicola, il commissario politico che aveva accompagnato il colonnello da Milano a Como il giorno prima e che era misteriosamente scomparso in mattinata.
Valerio fu sorpreso dal fatto che Nicola fosse giunto a Dongo prima di lui e pronunciò una frase del tipo “certe cose si pagano care”. Pedro chiese al colonnello di identificarsi e questi gli consegnò le sue credenziali. L’uomo studiò a lungo le carte. Un documento affermava che apparteneva al comando partigiano di Milano e ordinava a tutte le formazioni di assisterlo con ogni mezzo. L’altro era una normale carta d’identità. Con tutta evidenza, fu solo a questo punto che Pedro si rassegnò a riconoscerne l’autorità.

I due si dirigevano al municipio quando Valerio annunciò a voce alta che la sua scorta era tenuta a seguirlo ovunque. I partigiani di Dongo persero la pazienza e puntarono le armi contro il colonnello. Superavano in numero i suoi uomini e avrebbero aperto il fuoco al minimo cenno di Pedro. Erano ovviamente orgogliosi della cattura di Mussolini e temevano che il prigioniero fosse loro sottratto da un elemento non autorizzato. Tuttavia, Pedro non mosse un dito. In breve, i partigiani della Cinquantaduesima brigata realizzarono che era tutto inutile e la crisi fu superata.

Il colonnello e Pedro entrarono nel municipio mentre Sforni e De Angelis rimasero all’esterno, dove attesero per una buona mezz’ora di essere invitati a partecipare alla riunione tra Valerio, Pedro e altri. De Angelis decise quindi a salire da solo al secondo piano dell’edificio per informare il colonnello che, date le circostanze, non gli restava che tornarsene a Como. Ma era appena ritornato da Sforni al pianterreno che un gruppo di partigiani, armi in pugno, circondò i due uomini dichiarandoli in arresto. A nulla valse protestare. Furono condotti in una prigione e, più tardi, appresero che Pavolini aveva trascorso la notte precedente nella stessa cella. De Angelis chiese di vedere Neri (il luogotenente di Pedro), che egli conosceva personalmente. In qualche modo, Neri era un subordinato di De Angelis giacché quest’ultimo comandava le forze partigiane di tutta la provincia. Ma Neri non apparve. Due ore dopo la fucilazione dei gerarchi fascisti, Valerio ordinò che Sforni e De Angelis fossero liberati e che fosse loro consentito di tornare a Como.

L’incidente fu la prova tangibile di quanto il colonnello fosse deciso ad eseguire gli ordini con la massima rapidità, senza ingerenze di alcun tipo. Era chiaro che Sforni e De Angelis avevano lasciato Como con in testa le direttive emanate la sera precedente dal Clnai provinciale, che prevedevano la traduzione a Milano di Mussolini vivo. Ma, evidentemente, gli ordini di Valerio erano diversi. A Dongo, aveva informato Pedro e Neri che lo scopo della sua missione era di uccidere il Duce, Claretta Petacci e molti altri fascisti. E’ probabile, quindi, che abbia ordinato l’arresto di Sforni e di De Angelis perché riteneva che non avrebbero acconsentito ad un mutamento così drastico del piano originale.
Inoltre, De Angelis aveva annunciato che si sarebbe recato a Como, dove avrebbe certamente riferito del colpo di mano del colonnello. Di conseguenza, questi decise di non correre rischi e ordinò ai partigiani di Dongo di arrestare Sforni e De Angelis. Li conosceva tropo poco e sospettava delle loro reali intenzioni. Fu questa la scusa accampata.

Dopo l’esecuzione di Mussolini e della Petacci e la partenza di Valerio per Milano, Pedro andò a trovare Sforni e De Angelis. Si disse dispiaciuto per il loro arresto e affermò di non aver avuto altra scelta se non quella di obbedire agli ordini del colonnello, che era di grado superiore al suo. I tre uomini conversarono con franchezza. Pedro raccontò di essere stato personalmente favorevole a consegnare Mussolini e gli altri prigionieri al Clnai di Milano.
Tuttavia, su questo punto, gli ordini di Valerio erano chiarissimi. Il colonnello aveva confidato a Pedro che il trasporto a Milano dei cadaveri di Mussolini e dei suoi ministri era una questione capitale. In caso contrario, egli [Pedro] avrebbe pagato con la vita. Sembrò comunque strano che Pedro, il comandante dei partigiani del luogo, riconoscesse in Valerio non solo un ufficiale di grado superiore ma anche un elemento così importante da poter ordinare nientemeno che la fucilazione del Duce e degli altri gerarchi fascisti. In ogni modo, di qualsiasi natura fossero i dubbi nutriti da Pedro, questi furono cancellati dal placet degli altri capi partigiani (Neri e Bill, ad esempio), che erano presenti quando Valerio aveva enunciato gli obiettivi del suo viaggio a Dongo.


L’esecuzione di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri dignitari fascisti catturati dai partigiani a Musso e a Dongo (28 aprile 1945)

Il colonnello (rappresentante del Clnai milanese e del generale Cadorna, comandante in capo del Cvl) raggiunse Dongo verso le 13.00 con l’ordine segreto di giustiziare Mussolini, la Petacci e un certo numero di gerarchi fascisti. I prigionieri erano nelle mani della Cinquantaduesima brigata partigiana “Luigi Clerici”. Mussolini si trovava a Bonzanigo di Mezzegra, un villaggio sulle colline di Azzano (sulla strada principale che va da Como a Gravedona).
Alcuni ministri fascisti erano detenuti a Germasino, altri a Dongo. […] Valerio non era in possesso di ordini scritti o di una lista di persone da fucilare. Ma ciò non deve sorprendere, visto che le comunicazioni tra Dongo e Milano erano interrotte, senza contare che il Clnai di Milano era addirittura all’oscuro dei nominativi esatti dei prigionieri. […] Al colonnello fu quindi consegnato l’elenco dei quarantanove fascisti catturati a Dongo e a Musso. Comprendeva
ministri, gerarchi, autisti e altri. […].

Fu solo dopo l’arrivo di Valerio a Dongo che lo “spagnolo” (che si trovava nella stessa automobile di Claretta Petacci) fu identificato come il fratello della donna, Marcello. Il colonnello, invece, era convinto che si trattasse di Vittorio Mussolini. La sera prima, la radio del Clnai aveva infatti annunciato che il figlio del Duce intendeva raggiungere la Svizzera a bordo di una macchina, fornito di documenti spagnoli. Dal momento che lo “spagnolo” continuava a negare di essere Vittorio, Valerio ordinò a Bill di condurre il prigioniero al cimitero locale e di concedergli tre minuti per confessare la sua vera identità. Scaduto il termine, sarebbe stato assassinato. A quel punto, Marcello Petacci confessò. Gli chiesero allora di esibire una qualche prova. L’uomo disse che i suoi documenti erano nascosti nella stanza dell’hotel di Dongo dove aveva trascorso la notte precedente. Poco dopo, le carte furono trovate nel luogo indicato. Il suo nome fu quindi inserito nella lista compilata dal colonnello per l’esecuzione, per un totale di sedici persone. Tuttavia, prima di procedere con la fucilazione, Valerio si recò a Bonzanigo di Mezzegra, il luogo di detenzione di Mussolini e della Petacci. Erano circa le 16.00.

La versione del colonnello (Walter Audisio alias “colonnello Valerio”) dell'esecuzione è stata pubblicata qualch giorno dopo sulle pagine del quotidiano l’Unità, all’epoca l’organo ufficiale del Pci.. La seguente descrizione degli eventi è basata invece su una serie di racconti riferiti da testimoni oculari e da altre persone. Si segnalano, ad esempio, la padrona della casa dove la coppia trascorse la sua ultima notte e uno dei due partigiani che montarono la guardia (e che poi si occuparono dei due cadaveri). Con l’eccezione del brano che affronta i circa dieci minuti trascorsi dal momento in cui Valerio condusse Mussolini e la Petacci dalla casa di Bonzanigo al luogo della fucilazione in località Giulino di Mezzegra (vi è qualche dubbio in proposito giacché queste informazioni si basano su rapporti di seconda mano), il resoconto può essere considerato autentico.

Uscirono dalla casa di Bonzanigo poco dopo le 16.00. Il Duce indossava un pastrano color grigio scuro (il bavero era alzato) e un berretto calato fino agli occhi; Claretta un vestito grigio e, in testa, un fazzoletto di seta annodato sotto il mento. Portavano entrambi stivali neri. La scorta era composta dal colonnello, da un capo partigiano e da numerosi uomini. La processione era aperta da un partigiano armato di mitra. Veniva poi Mussolini, al cui fianco camminava il capo partigiano con un fucile a tracolla. Seguivano la Petacci e Valerio, che impugnava un mitra. Il Duce e la sua amante percorsero via del Riale e via Mainoni. A metà strada, sembrò all’improvviso che Mussolini stesse per ruzzolare a terra. Subito dopo, però, si riprese. Ai pochi passanti fu ordinato di allontanarsi ma alcuni rimasero ad osservare il corteo. Via Mainoni conduce ad una piccola piazza con, in mezzo, una piccola fontana. Sul lato est, si erge un arco che segna l’inizio di via Ventiquattro Maggio. Da qui si scende verso Azzano, passando per Giulino. Sotto l’arco sostava una Fiat 1100 nera, targata Roma. La processione si fermò. Il luogo era in penombra e sembrava fatto apposta per un’esecuzione. Tuttavia, la presenza ravvicinata di due persone (e di altre due accanto alla fontana) provocò un cambio di programma, prolungando di alcuni minuti la vita della coppia. I presenti, comunque, non si accorsero della disperazione con cui la Petacci abbracciò Mussolini durante la pausa. I due furono fatti salire in macchina e portati fino al numero civico 14 di via Ventiquattro Maggio. In questo punto la strada svolta improvvisamente a sinistra, in modo che da nord la visuale è coperta. Il muro ricurvo di pietra, con un cancello in mezzo, nasconde alla vista il lato sud della via. Dal cancello, guardando a sud verso il lago, si scorgono gli alberi di Tremezzo e un piccolo promontorio; oltre il lago, le campagne di Bellagio. Davanti al cancello, la visuale è nascosta da una fitta boscaglia. Dietro, si apre il sentiero che porta a villa Belmonte. Fu in questo luogo incantevole che il Duce e Claretta furono fatti scendere dalla Fiat 1100. Ora, forse, capirono ciò che stava per accadere. Terrorizzati e ammutoliti, ascoltarono la sentenza di morte letta dal colonnello.

Subito dopo, a Mussolini fu ordinato di spostarsi di qualche passo verso il muro di pietra, a nord del cancello. Fu allora che Valerio gli scaricò addosso una raffica di mitra. Il colonnello era rivolto a nord, alla destra del condannato. Cinque proiettili colpirono trasversalmente il torace del Duce. Ci si interroga ancora se, alla distanza di qualche passo, abbia aperto il fuoco anche il capo partigiano che stava alla sinistra del prigioniero. Mussolini si accasciò sulle ginocchia per poi stramazzare accanto al muro. Fu poi la volta della Petacci, che alzò le braccia in un gesto di disperazione. Anche la donna fu colpita al torace e cadde a fianco dell’amante. I corpi si toccavano. Il Duce non era ancora morto (aveva un occhio aperto). In quel momento, un partigiano arrivò trafelato dalla parte bassa della strada. Aveva udito la raffica di mitra. Il capo partigiano che aveva partecipato all’esecuzione gli fece cenno di avvicinarsi. Vedendo che Mussolini era ancora in vita, il nuovo arrivato estrasse una rivoltella e lo finì con due colpi. Lino, che poco dopo fu vittima di un fatale “incidente”, raccontò più tardi che Claretta si era rivolta al Duce con queste parole: “Siete felice di essere stato accompagnato fino a questo amaro epilogo?”. Secondo il partigiano, potrebbero essere parole d’amore ma anche di risentimento.

La fucilazione avvenne tra le 16.15 e le 16.30. Lino e Menefrego (quest’ultimo arrivò a piedi da Bonzanigo qualche minuto dopo) rimasero accanto ai cadaveri mentre Valerio e gli altri se ne andavano. […] I corpi furono poi rimossi dalla strada. In via Ventiquattro Maggio, Mussolini aveva perso poco sangue.
Tuttavia, ne uscì in abbondanza mentre la salma veniva portata via a bordo di una piccola automobile. Più tardi, un fotografo locale scattò una foto della pozza di sangue rimasta nell’abitacolo. […] I corpi dei sedici gerarchi fascisti giustiziati a Dongo (la loro esecuzione avvenne alle 17.17) furono collocati su un camion e portati ad Azzano. All’incrocio della strada principale con via Ventiquattro Maggio (che scende da Giulino di Mezzegra), l’automezzo si fermò per caricare le salme del Duce e della Petacci. Subito dopo partì per Milano con a bordo i diciotto cadaveri, giungendo in città la notte stessa.


La Cattura di Mussolini (Memorandum di Giovanni Dessy)

“Relazione sugli eventi che precedono e conducono alla cattura di Mussolini
Dopo il 22 aprile, in conseguenza degli eventi, il dr. Guastoni ed io abbiamo avuto l’impressione che la situazione generale nel Nord Italia poteva cambiare repentinamente da un momento all’altro in vista del fatto che il dott. Guastoni conosceva la situazione di Como e la sua provincia molto bene, noi subito abbiamo visto la possibilità di lavorare assieme per ottenere una più veloce soluzione della situazione locale che poteva essere anche veramente importante per l’esito generale considerando cosa rappresenta Como rispetto alla sede milanese del precedente governo repubblicano, e che tutte le forze fasciste sarebbero dovute andare a Como, insieme con i vecchi gerarchi.
Il dr. Guastoni perciò è andato in Svizzera per parlare con Mr. Jones e anche per chiedere un’autorizzazione scritta e regolare che ci permettesse di agire in nome del Consolato Americano, in quanto questa autorizzazione ci avrebbe facilitato molto.
Dopo avere ottenuto questa autorizzazione (allegato n. 1) siamo andati in Prefettura dove ci siamo incontrati col prefetto fascista Celio. Durante l’incontro siamo stati assicurati che l’autorità ci sarebbe stata garantita da una parte all’altra in tempi molto brevi senza problemi; noi siamo stati anche capaci di menzionare la situazione di M. e dei suoi uomini, e abbiamo avuto l’impressione che potevamo ottenere la loro resa se le seguenti condizioni fossero state accettate: salvare la vita di Mussolini e quella dei suoi uomini, come anche quella di tutta la sua famiglia e delle famiglie dei suoi uomini.
Avendo saputo che il prefetto Celio ha avuto l’opportunità di vedere o inviare qualcuno a vedere Mussolini che si trovava già in provincia di Como, il Dr. Guastoni si è messo in contatto col viceconsole americano per sapere il punto di vista degli Alleati. Su questo punto è stato accertato da questo incontro con il dr. Jones che non è stato possibile salvare la vita di Mussolini e degli uomini del suo seguito, cosa che dovrà essere verificata in una regolare corte, ma che la vita dei membri della sua famiglia deve essere salvata. Questa intenzione è stata comunicata a Pavolini attraverso il prefetto Celio.
Questa è apparsa come la migliore soluzione e perciò è stato consigliato che essi dovessero accettare. Se avessero accettato ciò avrebbe voluto dire anche che molte vite sarebbero state risparmiate e che le ostilità sarebbero cessate.
Nel frattempo la situazione a Como è diventata rapidamente complicata in quanto forze fasciste hanno chiesto via radio di avanzare verso Como e arrivando in gran numero in tutta la provincia – come era stato previsto – mentre forze partigiane erano arrivate in città e nei suoi dintorni. Perciò lì c’era stata da un lato l’assoluta necessità di controllare le forze fasciste che erano ancora padrone della situazione perché più numerose e avevano migliori armamenti, e dall’altra la necessità di agire immediatamente di modo che il Comitato di Liberazione Nazionale e le forze patriote potessero iniziare il loro lavoro e dominare la situazione a poco a poco.
Perciò il nostro compito, particolarmente difficile, è stato di servire da mediatori tra elementi fascisti da un lato e il Comitato di Liberazione dall’altro, per evitare almeno in città ogni incidente che potesse avere terribili conseguenze, in quanto abbiamo saputo che numerosi gruppi fascisti armati sono andati in direzione di Como. Nello stesso tempo è stato assolutamente necessario evitare che tutte le forze delle Brigate Nere che stavano per convergere a Como arrivassero nella regione (dintorni di Menaggio) scegliendola come linea di prima resistenza.
Il nostro programma era:
-a) ottenere che Mussolini e il suo seguito fosse liberato appena possibile, nelle mani delle Autorità perché ciascun centro di forza di resistenza in tal modo cessasse;
-b) ottenere la smobilitazione e il disarmo di tutte le forze fasciste concentrate a Como o appena arrivate qui, così prevenendo la formazione di forti gruppi di resistenza attorno a Mussolini.
Prima fase
Dalle ore 21 del 25 aprile alle 12,30 del 27 aprile
Mussolini arrivò improvvisamente a Como la sera del 25 aprile verso le 21 , proveniente da Milano con un largo seguito (circa 35 persone) scortato da due piccoli camion con due mitragliatrici. Arrivò tanto improvvisamente che il prefetto fascista di Como era da solo a Villa d’Este e non sentì nulla del suo arrivo.
Non appena arrivato Mussolini andò in Prefettura, dove il prefetto fascista si riunì con lui per circa un’ora.
Dopo avere fatto un pasto Mussolini ha chiesto chi di sua moglie e dei suoi figli fosse arrivato il giorno prima a Villa Mantero. Allora Mussolini ha avuto alcuni colloqui durante i quali ha esaminato la situazione e preso decisioni riguardanti le future mosse. Ha parlato con: Zerbino, Barracu, Mezzasoma, Buffarini, Gatti, Bombacci. Altri collaboratori (Tarchi, Liverani, ecc.) erano presenti durante taluni colloqui. Mussolini ha detto di essere convinto che ora, siccome la partita era perduta, non c’era nulla da fare tranne che opporre resistenza con le ultime forze fedeli e battersi fino alla fine nella provincia di Como.
Tali forze hanno avuto ordini, uscite da Milano verso varie province, di radunarsi a Como. E come per le forze tedesche Mussolini era convinto che esse volevano abbandonarlo, così egli ha sentito sulle trattative di pace che il generale Wolff aveva cominciato in Svizzera col Comando Alleato.
Due serie di opinioni sono state evidenti tra i suoi collaboratori:
1) provare di essere accettati dalla Svizzera, e in caso di rifiuto consegnarsi essi stessi al Console Americano. Questa soluzione è stata privilegiata da Buffarini, Mezzasoma, Liverani, dal prefetto fascista di Como.
2) Formare una roccaforte in alcune parti della provincia di Como e resistere fino all’ultimo, o infine chiedere i termini della pace.
Questa soluzione è stata privilegiata da Mussolini, Bombacci e Porta.
Alle 4 circa antimeridiane del 26, dopo un discorso di circa un’ora e mezza con Porta e Zerbino, egli è improvvisamente uscito dalla stanza dove si era sistemato prima e ha ordinato che la sua macchina fosse immediatamente pronta. E’ salito in macchina e ha detto ai presenti che stava andando a Menaggio. Porta e Zerbino sono saliti in macchina con lui.
La sua macchina ebbe come scorta una macchina militare tedesca, armata di mitragliatrice e quattro soldati tedeschi della sua guardia personale i quali avevano preceduto il Corpo Speciale Germanico assegnato a Mussolini e che era arrivato a Como verso le 9 ed era andato subito a Menaggio.
Istruzioni allora sono state date perché le forze fasciste che erano state consegnate a Como potessero essere mandate in esecuzione di quest’ordine nella zona di Menaggio. L’arrivo di Pavolini fu necessario. Egli stava arrivando con un gran numero di forze fasciste quella stessa mattina.
Subito dopo la partenza di Mussolini, sua moglie e due ragazzi minorenni, Anna Maria e Romano, sono stati inviati alla frontiera svizzera di Ponte Chiasso, per chiedere asilo in Svizzera. In caso di accettazione di questa famiglia, le famiglie di altri ministri li avrebbero seguito. Circa due ore dopo la partenza di Mussolini, tutti gli altri ministri hanno lasciato la loro strada per Menaggio. Dopo la partenza di Mussolini per Menaggio tutte le comunicazioni tra Como e Menaggio sono state interrotte.
Il 26, alle otto circa del mattino, Pavolini e le forze fasciste di Milano sono giunte a Como (circa 1500 uomini, 6 o 7 mezzi blindati e circa 100 macchine) e si sono installate a Como: più precisamente al Teatro sociale nella casa del Fascio e nelle baracche di due donne ausiliari.
Pavolini, dopo una sosta di mezz’ora, è partito per Menaggio, lasciando istruzioni che le truppe si sarebbero mosse gradualmente verso Menaggio. In ogni caso egli ha progettato di tornare a Como per dirigere il movimento.
Il pomeriggio del 26 dopo il ritorno di Pavolini, è stato stabilito, in accordo col CLN e per evitare un conflitto armato nella città [...] programmato per la mattina del 27, che le summenzionate truppe avrebbero lasciato Como senza ostacoli alle 6 in punto del 27. Tali accordi sono stati raggiunti dopo molti abboccamenti e discussioni tra me e il dr. Guastoni.
Mentre Pavolini alle 5 in punto del 27 partiva per Menaggio con tre carri armati del gruppo, il vicesegretario Romualdo (sic), comandante delle forze fasciste di Mantova, Motta, Colombo, comandante della Muti, il commissario federale di Milano e Costa ritornavano in Prefettura dove stazionava il Comando militare e il CLN e chiedevano un allungamento del tempo consentito per la partenza. Tale conversazione si è conclusa nell’accordo dell’allegato n. 2.
Mentre la principale parte dei mezzi corazzati del gruppo che era rimasta a Como dopo la partenza di Pavolini era in arrivo alla zona prestabilita, il resto della colonna fu fermato a Cernobbio dai Patrioti. Romualdi, Colombo e Motta furono convocati per consegnarsi immediatamente a Como. Tale soluzione fu accettata e la resa degli automezzi delle armi e delle truppe fu stabilito che riguardasse la località e la villa Olmo e furono diramate da me personalmente le seguenti istruzioni da Como.
Seconda fase
Dalle 12,30 circa del 27 alle 16 del 28
Ad uno speciale incontro del CLN di Como, durante il quale io ho prodotto una breve relazione sulla situazione che si era sviluppata e sulla possibilità di convincere Mussolini a rinunciare da solo ai suoi tentativi, assieme all’abbandono e al disarmo delle forze fasciste di Milano, io avevo avuto la missione di determinare la resa di Mussolini e la sua successiva consegna alle Autorità. Un genere di missione della quale allego una copia (n.3) che ha preso in considerazione l’opinione delle Autorità americane che si era espressa verso il dr. Guastoni.
In questa occasione io desidero menzionare il fatto che nella sera del 26, Vittorio Mussolini chiese al prefetto di Como Celio di disporre un incontro col dr. Guastoni e me per parlare a fondo dei termini di una eventuale resa del padre, i termini raggiunti durante questo discorso sono stati:
1) urgente chiamata di emissione verso la regione dove era stato creduto che Mussolini avesse avuto rifugio, per indurlo, anche a nome della sua famiglia ad arrendersi, incondizionatamente alle Autorità, in questo modo cessare ogni ultima resistenza in tutto il territorio italiano.
2) La missione è stata assegnata per decidere sulle modalità di resa. Mr. Vanni Teodorani stava a rappresentare la famiglia di Mussolini.
Per riuscire a raggiungere la località esatta dove Mussolini aveva trovato rifugio, che noi conoscevamo, e per indurlo alla resa, sono partito con una macchina alle 12,30 circa del 27 avendo con me Romualdi, Colombo, Teodorani.
Quando abbiamo raggiunto la località di Cadenabbia la macchina è stata fermata da un gruppo di partigiani di “Giustizia e Libertà”, brigata diretta personalmente dal comandante di brigata (Giovanni).
Il viaggio allora è stato interrotto perché sebbene io avessi mostrato il mio ordine di missione, un uomo ha riconosciuto Colombo e lo ha additato a tutti quelli che erano attorno a noi, provocando una situazione estremamente pericolosa che avrebbe potuto trasformarsi nella esecuzione di tutti noi, anche se il comandante della Brigata avendo capito l’importanza della nostra missione ha provato energicamente di permettere alla nostra missione di continuare. Quindi vedendo lo stato molto eccitato dell’animo della popolazione e degli uomini armati che egli non poteva sistemare con ordini perché la macchina continuasse il suo viaggio, Giovanni ha arrestato tutti gli occupanti della macchina e li ha portati in una prigione vicina e poi si è mosso verso S. Fedele Intelvi con un carro.
Quando siamo arrivati là, Giovanni ha telefonato a Como e la situazione era chiarita. Dopo siamo dovuti tornare a Como dato che non fu possibile portare a termine la missione per lo stato di sovreccitazione della popolazione della zona. Colombo allora li consegnò per mio tramite al Comando della brigata “Giustizia e Libertà”. Ho pensato che sarei stato in grado di portare a termine la missione il giorno seguente se fino ad allora non fossero sorti nuovi sviluppi. Comunque la notte abbiamo avuto la comunicazione ufficiale (alle 22,30) dell’arresto di Mussolini e di altri ex ufficiali (allegato n. 4) che avevano raggiunto il luogo alle ore 16.
Nelle prime ore del 28, il colonnello Valerio, del Comando militare generale di Milano e Mr. Guido, presentatosi egli stesso come appartenente al medesimo Comando Generale sono venuti in Prefettura con la missione di riportare gli uomini arrestati a Milano.
Il colonnello era accompagnato da una scorta armata di circa dieci uomini. Il CLN aveva fornito i mezzi di trasporto richiesti da Valerio (carro completamente coperto) assegnando una sua rappresentanza e me stesso per assistere al trasporto.
Prima di partire il col. Valerio ha detto in un modo che non permetteva alcuna discussione che egli desiderava avere con sé solo una rappresentanza del CLN e il maggiore De Angelis, comandante provinciale.
La spedizione dunque è partita senza di me.
Gli eventi successivi sono conosciuti, e in ogni caso ne farò un breve sommario, in quanto li conosco tramite testimoni oculari (Maggior De Angelis, Mr. Sforni, Mr. Tacchini, conducente della macchina che trasportò i summenzionati uomini a Dongo).
  1. Al loro arrivo a Dongo Mj. De Angelis e Sforni sono stati messi in prigione da dove essi sono stati in grado di assistere all’esecuzione, attraverso le sbarre della prigione, degli ex ufficiali arrestati nella zona di Dongo, eccetto Mussolini e la Petacci.
  1. Dopo circa un’ora e mezza dalla partenza dei carri che trasportavano i corpi dei morti, due rappresentanti sono stati liberati e sono stati in grado di ritornare.
La rappresentanza menzionata è in possesso di una dichiarazione del comando della 52^ Brigata, la Brigata Garibaldi, che esclude ogni possibile responsabilità degli avvenimenti che possono essere attribuiti a loro.
  1. Mussolini e la Petacci non sembra siano stati colpiti da spari in Dongo, ma sembra che un carro sia stato visto partire per località sconosciuta (Tre-mezzo? nda: sic) prima della esecuzione della piazza di Dongo e ritornato dopo circa un’ora.
  1. L’esecuzione si è svolta nel seguente modo:
a) i prigionieri sono stati condotti nella piazza del municipio e sistemati con la faccia verso il lago;
b) un monaco ha dato loro l’assoluzione in extremis;
c) Bombacci ha chiesto ad alta voce di salvare almeno Barracu (Medaglia d’oro) dichiarando insistentemente verso il pubblico che egli aveva provato sempre ad aiutare le classi lavoratrici.
d) Dopo gli ultimi preparativi i prigionieri hanno gridato “Viva l’Italia” e lì sono seguiti i primi colpi di mitragliatrice ordinati dal colonnello probabilmente del Comando militare generale.
I colpi si sono susseguiti per circa dieci minuti accompagnati dalle urla della folla. Alcuni feriti da colpi di rimbalzo si trovavano tra la folla.
e) Zerbino e un altro prigioniero in uniforme di ufficiale dell’Aeronautica morì fumando una sigaretta.
f) Petacci (nda: ci si riferisce evidentemente a Marcello Petacci, fratello di Claretta, che fu presto identificato e inserito nel gruppo dei sedici fascisti da giustiziare) che, attraverso una richiesta dei soli prigionieri non fu colpita da spari con loro, fece ritorno al Municipio e fu portata fuori nella piazza dopo l’esecuzione del primo gruppo. Quando egli è venuto fuori dal Municipio, ha provato a scappare ed allora è stato immediatamente ferito dai colpi.
Terza fase
Sul 27 e parte della mattina del 28
Nelle prime ore del 27 aprile fu segnalata la presenza di una colonna delle Brigate Nere. Questa colonna dopo avere controllato lungo il percorso della strada Lecco-Como tutti i gruppi fascisti isolati, entrarono nella città di Como.
La colonna era formata da circa 3000 uomini completamente bene armati (cannoni, molte mitragliatrici 20mm), trasportati tutti da oltre 200 automezzi.
Questa colonna, dopo aver combattuto a suo modo attraverso varie resistenze incontrate lungo la strada (durante i combattimenti qui ci sono stati dei feriti gravi da entrambe le parti) si è arrestata nella periferia della città e sembrava che decidesse di occupare la città e poi di continuare verso la zona dove Mussolini aveva trovato rifugio.
In vista delle differenze di proporzioni tra le forze patriottiche nella città e quelle delle Brigate Nere, fu subito deciso di venire a un accordo in modo che si prevenisse il loro ingresso nella città e ove possibile il loro disarmo.
L’accordo fu veramente difficile perché il comando delle forze fasciste (Melchiorri, Vecchini, Gallarini, Facduel e un maggiore dell’esercito repubblicano, ecc.) conscio della loro superiorità di uomini e armi, pensò di realizzare i loro piani o almeno prendere un’assicurazione che le loro vite e ciò che era dei loro uomini fosse salvato.
Dopo varie proposte e argomenti da parte del dr. Guastoni aiutato dal Prefetto di Como e dagli altri membri del CLN, in serata furono raggiunti i seguenti accordi:
1) La colonna sarebbe entrata in città gradualmente: un carro per volta ciascuno scortato da forze Patriote: all’arrivo degli uomini alla Casa del Fascio essi avrebbero consegnato le loro armi e sarebbero stati liberi di lasciare Como e di andare a casa.
Dopo di ciò fu possibile disarmare gli uomini alle porte della città., grazie all’aiuto dell’ex questore Bozzoli e dell’attuale questore Grassi.
2) Per potere convincere i capi di ciascuno gruppo a ordinare di consegnarsi, andava resa loro una formale dichiarazione che essi e i loro uomini avrebbero avute protette le loro vite al momento dell’uscita dalla città, ciò era stato naturalmente negli accordi con il CLN e potendo revocare, le autorità di altre località, qualche decisione che potesse riguardarli.
La notte del 27 e durante il mattino seguente Gallarini rimase in prefettura per completare il disarmo come convenuto sopra. La mattina del 28 anche Gallarini fu accompagnato dalla prefettura con un permesso di lasciare la città.
L’operazione di resa fu portata a termine con grande calma, senza incidenti.
L’operazione è stata particolarmente difficile per i seguenti motivi:
a) Lo stato d’animo di molti uomini delle Brigate Nere che avevano camminato due giorni per raggiungere Como, per combattere lo loro battaglia;
b) la necessità di cibare gli uomini che erano stati condotti a credere che sarebbero stati in grado di trovare cibo e riposo solo se avessero occupato Como;
c) la presenza nella colonna di un certo numero di uomini pronti a combattere fino all’ultimo e che non intendevano deporre le loro armi;
d) in ultimo i loro dubbi, che avevano manifestato apertamente, sulle assicurazioni che il dr. Guastoni, io e i membri del CLN avevamo dato loro sulla loro incolumità.
La soluzione non poteva essere migliore e non poteva essere risolta in un modo migliore.
Da quanto abbiamo detto sopra è chiaro che se non ci fossero state impreviste difficoltà e imprevisti eventi che seguirono le nostre direttive il risultato finale sarebbe stato quello voluto dalle Autorità Alleate e dal CLN.
Tutte le negoziazioni di argomento militare che sono state risolte da noi durante i giorni 26,27 e 28 sono state riconosciute dal Lit.Cl. Sardagna del Comando Generale, spedite dal generale Cadorna, e arrivato a Como la mattina del 27.
Maggio 1, 1945
Il capitano di Fregata
Firmato Dessy Giovanni”

mercoledì 21 aprile 2010

Amnesty International - Rapporto Annuale 2008: fatti e cifre

Rapporto Annuale 2008: fatti e cifre

Le promesse della Dichiarazione universale dei diritti umani e la loro realizzazione sul campo



Articolo 1

"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti".

Nel 2007: in Egitto, nei primi sei mesi, 250 donne sono state assassinate dal marito o da altro familiare; ogni ora sono stati commessi, in media, due stupri.


Articolo 3
"Ogni persona ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona".

Nel 2007: sono state eseguite almeno 1252 condanne a morte in 24 paesi.


Articolo 5
"Nessuna persona potrà essere sottoposta a tortura o a trattamento o a pene crudeli, inumane o degradanti".

Nel 2007: Amnesty International ha documentato casi di tortura o altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti in almeno 81 paesi.


Articolo 7
"Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a un'eguale tutela da parte della legge".

Nel 2007: Amnesty International ha evidenziato legislazioni discriminatorie contro le donne in almeno 23 paesi, contro i migranti in almeno 15 paesi e contro le minoranze in almeno 14 paesi.


Articolo 9
"Nessuna persona potrà essere arbitrariamente arrestata, detenuta o esiliata".

Nel 2007: alla fine dell'anno, almeno 600 persone erano in carcere senza accusa, processo o revisione giudiziaria nella base aerea statunitense di Bagram, in Afghanistan, e 25.000 erano quelle detenute dalla Forza multinazionale in Iraq.


Articolo 10
"Ogni persona ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, a un'equa e pubblica udienza davanti a un tribunale indipendente e imparziale".

Nel 2007: Amnesty International ha riscontrato procedimenti giudiziari iniqui in 54 paesi.


Articolo 11
"Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente".

Nel 2007: alla fine dell'anno, circa 270 delle 800 persone trasferite a Guantánamo Bay dal 2002 erano ancora detenute senza accusa né procedimento legale corretto.


Articolo 13
"Ogni persona ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato".

Nel 2007: oltre 550 postazioni militari e altri blocchi imposti da Israele hanno limitato o impedito il movimento dei palestinesi all'interno della Cisgiordania.


Articolo 18
"Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione".

Nel 2007: Amnesty International ha registrato prigionieri di coscienza in 45 paesi.


Articolo 19
"Ogni persona ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, [...] di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini".

Nel 2007: Amnesty International ha riscontrato leggi limitative della libertà d'espressione e di stampa in 77 paesi.


Articolo 20
"Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica".

Nel 2007: migliaia di persone sono state arrestate durante la repressione delle proteste pacifiche di Myanmar; secondo Amnesty International, alla fine dell'anno erano in carcere circa 700 prigionieri di coscienza.


Articolo 23
"Ogni persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro [...] e di fondare dei sindacati e di aderirvi".

Nel 2007: almeno 39 sindacalisti sono stati assassinati in Colombia; nei primi quattro mesi del 2008 i morti sono stati già 22.


Articolo 25
"Ogni persona ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia [...] La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure e assistenza".

Nel 2007: il 14 per cento della popolazione del Malawi era affetta dal virus dell'Hiv/Aids e solo il 3 per cento di essa aveva accesso a farmaci anti-retrovirali gratuiti. Un milione di bambini era stato reso orfano per cause mortali collegate all'Hiv/Aids

Fight Club: Project Mayhem - Progetto Caos

«Vedo gli uomini più forti e intelligenti che siano mai vissuti» dice e la sua faccia si staglia sulle stelle nel finestrino, «e questi uomini sono alle pompe di benzina e a servire ai tavoli.»
La curva della sua fronte, l'arcata sopracciliare, la linea del suo naso, le sue ciglia e le virgole dei suoi occhi, il plastico profilo della sua bocca parlante, tutto questo
è delineato in nero contro le stelle.»
«Se potessimo mettere questi uomini nei campi di addestramento e finire di educarli.
«Una pistola non fa altro che focalizzare un'esplosione in una sola direzione.»
«Avresti una classe di uomini e donne giovani e forti, tutta gente desiderosa di dare la vita per qualcosa. La pubblicità ha spinto questa gente ad affannarsi per automobili e vestiti di cui non hanno bisogno. Intere generazioni hanno svolto lavori che detestavano solo per comperare cose di cui non hanno veramente bisogno.»
«Noi non abbiamo una grande guerra nella nostra generazione, o una grande depressione, e invece sì, abbiamo una grande guerra dello spirito. Abbiamo una
grande rivoluzione contro la cultura. La grande depressione è quella delle nostre vite. Abbiamo una depressione spirituale.»
«Dobbiamo mostrare la libertà a questi uomini e a queste donne rendendoli schiavi e mostrare loro il coraggio spaventandoli.»
«Napoleone si vantava di poter addestrare uomini a sacrificare la vita per un nastrino.»
«Pensa a quando proclamiamo uno sciopero e tutti si rifiutano di lavorare fino a quando non abbiamo ridistribuito le ricchezze del mondo.»
«Pensa ad andare a caccia di alci nelle valli boscose intorno alle macerie del Rockefeller Center.»

Tratto da "Fight Club"
Chuck Palahniuk

Consiglio a tutti di scoprire ed imparare ad amare uno dei migliori autori degli ultimi 20 anni. Parole dure che colpiscono dritte allo stomaco!!!